L’aveva amato di quell’amore che si fa giorno insieme a parlare su una panchina in mezzo a un paese sconosciuto, guarda, l’alba, e lui le metteva la mano sulla testa, le spettinava i capelli, dai andiamo a letto, no andiamo a fare colazione, e attraversavano la strada, lei si appoggiava al suo fianco per cercare ancora quel tepore, lui l’abbracciava, bevevano il caffè e andavano a dormire vestiti.
L’aveva aspettato dietro il colonnato della piazza, ciao, cosa fai qui? niente, passavo, non è vero, è vero non è vero, devo andare, va bene mi basta averti visto, ci sentiamo, ci sentiamo.
Aveva spiluccato ore rubate, mangiato lentamente per non farlo andare via subito, gli aveva stretto la mano in pubblico, piacere, piacere mio, mentre dentro si sentiva un po’ marcia e troppo triste, gli aveva regalato undici libri e un pupazzetto, roba da ragazzini.
Un giorno lui le aveva detto ti porto a vedere un posto, lei aveva pensato ad un altro paese abbastanza lontano per non essere conosciuti o un albergo in fondo alla vallata, invece avevano camminato in mezzo a sterpi ed erba alta, scavalcato cancelli sbarrati, poi le aveva preso la mano per farla entrare, guarda.
L’aveva seguito fra calcinacci e rovi, scansando vecchi travi mentre la polvere le saliva sulle scarpe e fino al naso, aveva starnutito mentre lui le raccontava di quel posto, storia di abbandoni e famiglie e poi disgrazie e le solite leggende dei luoghi così.
Andiamo via, gli aveva chiesto, ma lui l’aveva trascinata da una stanza all’altra, andiamo via, e lui le indicava angoli e camini neri di fuochi spenti da troppo tempo, andiamo via, ma lui già la prendeva fra le braccia, dai non avrai mica paura.
Non aveva avuto paura, piuttosto un fastidio addosso, come se la vita di chi ci era stato, lì dentro, fosse attaccata ai mattoni e richiedesse un pegno, per passare per quei corridoi silenziosi.
Andiamo via, va bene, erano usciti e fuori il sole era ancora alto, ma non per loro, ti accompagno devo tornare.
Non ne avevano più parlato, del palazzo abbandonato, ma era come se da quel giorno la vita attaccata ai mattoni degli spessi muri bussasse alla loro, e lei lo vedeva dal sorriso di lui sempre più tirato, dagli impegni incalzanti, dalle scuse improbabili, dai ritardi.
Così, quando una sera era arrivato trafelato, scusa, ho pochi minuti mi aspettano per cena, lei aveva pagato pegno. Aveva messo un fascio di fotografie sul tavolo, tieni, sono per te, lui le aveva sfogliate, ogni scatto un posto, la panchina in mezzo al paese sconosciuto, il colonnato della piazza, le stanze di alberghi a ore, il vigneto della collina a due ore da lì.
Sono tornata in ogni luogo, in ogni posto che abbiamo vissuto insieme, gli aveva detto.
È tutto quello che ho avuto.
Poi era uscita per prima, lasciandolo solo a sfogliare i pixel della loro storia, come lei aveva fatto ogni notte, aspettandolo.
E dopo quella, di notte, alla prima luce del giorno aveva camminato in mezzo a sterpi ed erba alta, scavalcato cancelli sbarrati, era entrata nelle stanze vuote scavalcando calcinacci e rovi, scansando vecchi travi, mentre la polvere creava nebbia intorno a lei.
Dove lui l’aveva abbracciata si era stesa, facendosi feto, mentre la vita attaccata ai mattoni scendeva al suo fianco, facendosi morte.
Ho pagato pegno, gli aveva detto.
Anche io, le aveva risposto.
Insieme, si erano addormentati.
Lui Tasini

grazie a Lui per aver accettato di scrivere il testo, per la collaborazione, per il tempo e l'affetto.

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